Un romanzo affascinante, coinvolgente, pieno di emozioni. Durante la lettura ci si immerge in un mondo intenso, col solo desiderio di scoprire dove vogliono portarci l'Autore e il suo protagonista Nehljudov.
Le immagini che appaiono leggendo il romanzo sono così vivide, che a tratti pare di stare al cinema.
Le pagine grondano di dolore. La descrizione introspettiva dei personaggi consente una loro conoscenza così profonda, da arrivare a sentire sentimenti di confidenza nei loro confronti. Simpatia e antipatia provate da Neheliudov nel corso della sua esperienza di vitano, diventa la nostra.
Nel complesso l'opera restituisce spiritualità e indignazione nei confronti dei paradossi che l'epoca moderna istituisce nei confronti del popolo indifeso: lo strapotere di classi sociali indifferenti, fredde e distaccate (persino ciniche e tiranne) da una parte, l'emarginato deprivato della dignità di persona dall'altra. Controparti di un contrasto tra classi sociali destinate a rimanere in conflitto tra loro per sempre.
Appare sorprendete scoprire quanto le carceri dell'800 descritte da Tolstoj siano simili alle nostre del 2000: passato più di un secolo, ben poco è cambiato.
Eppure i testi giuridici parlano di diritti fondamentali dell'uomo e di carattere riabilitativo della pena. Oggi, come nell'800, ben poco di tutto ciò si respira quando dalla lettura dei testi, si passa alla realtà: ambienti sporchi, maleodoranti, privi di igiene, assenza di operatori, diritti riservati solo a chi può far sentire la propria voce. Per la maggior parte dei detenuti ospitati negli istituti di oggi, come in quelli di ieri, la normalità è la mancanza di opportunità di un reale reinserimento, esigenze di ogni genere in sovrannumero rispetto alle risorse disponibili per dare risposte concrete. Istituti penitenziari somiglianti più a macelli di persone umane, che a luoghi di rieducazione: la parola suona oggi persino retorica.
La dialettica dell'opinione pubblica si articola sull'implicita considerazione: "chi sbaglia, paga", "chi ha commesso un reato, deve restituire il maltolto".
La regola di una sistema penale retributivo si è rivelata sbagliata: restituire il maltolto può essere giusto, ma ciò non avviene certo attraverso l'ozio, la noia e l'umiliazione. Privare un detenuto di qualsiasi contatto dai propri cari non è certo riabilitativo.
Punire, umiliare, offendere la dignità di una persona: tutto ciò aggiunge sofferenza a sofferenza.
Il nostro sistema penitenziario odierno, come quello di un secolo fa, non fa altro che creare i presupposti per indurre la persona detenuta a sviluppare rabbia e frustrazione: condizioni che inducono a effettuare ulteriori reati.
Eppure vi sono esempi di singolare testimonianza che dimostrano che un carcere diverso sia possibile: si parla di Milano Bollate, Isola di Gorgonia, carcere il Volterra ... o di singoli progetti particolarmente "illuminati" come il Polo universitario di Prato .... ma tutto ciò è troppo poco a fronte di una massa enorme di detenuti abbandonati a se stessi, a passare anni e anni rinchiusi in cella, spesso senza essere ascoltati o senza effettuare un solo corso di formazione.
Di solito chi scrive parole simili alle mie passa per buonista: la strada è ancora lunga anche su di un piano culturale: intanto "Resurrezione", scritto nel 1899 è un romanzo ancora attuale, da leggere per sviluppare una maggiore sensibilità verso una delle materie più importati dell'epoca moderna.
Nessun commento:
Posta un commento