sabato 24 marzo 2012

"Novecento" (1994) di Alessandro Baricco, edizioni Feltrinelli

Lo confesso, io ho un debole per la scrittura di Alessandro Baricco: sono grato all'autore, perché mi ha fatto appassionare alla lettura dei romanzi. Dopo tanti anni ricordo ancora con piacere la sua trasmissione televisiva Pickwick, che sucitò in me il desiderio di abbandonarmi ai libri, di concedermi quelle parentesi esistenziali stampate sulle pagine, lontano dal mondo, ma così ricche del mondo stesso.
Novecento è un neonato abbandonato e cresciuto nella stiva di una nave, adottato da un marinaio addetto alla macchina-motore. Diventa grande e impara a suonare il pianoforte. In quella nave, lontano dall'influenza di altri musicisiti, Novecento sviluppa un suo stile personale, riesce a suonare in modo così originale, che presto anche sulla terra ferma si inizia a parlare di lui.  Col tempo, il misterioso musicista diventa una vera e propria attrazione, tanto che qualcuno si imbarca solo per conoscerlo e sentirlo suonare dal vivo. Nessuno riesce a capire di che genere si tratti, da qui il celebre motto di Baricco: se non sai che musica è, quella musica è jazz. 
Come può crescere un bambino in una nave, senza genitori, adottato da un marinaio e circondato da turisti e viaggiatori? I suoi compagni di vita sono persone sempre diverse, ma tutte caratterizzate dal medesimo entusiasmo di una nuova vita: l'America.
Durante la lettura, le emozioni si traducono con estrema semplicità in vere e proprie sensazioni: le onde del mare accompagnano il ritmo del pianoforte in quella musica di Novecento.
Nel corso del mio lavoro e, in particolare, delle sedute di psicoterapia, penso spesso a Novecento, perchè in quest'opera c'è un aneddoto, che tuttavia non voglio qui rivelare, per non rovinare la sorpresa a chi intende leggere l'opera. Ebbene, secondo me quell'aneddoto può essere letto come una metafora esistenziale: le persone che si recano nel mio studio di psicoterapia, mi dimostrano ogni giorno quanto sia complessa la vita. La ricchezza che essa riserva a ciascuno di noi, ci mette nella condizione di dover fare delle scelte. Spesso le scelte si escludono a vicenda: se preferisco un'opzione, devo necessariamente abbandonare tutte le altre possibilità. Il senso del limite che ne consegue può spaventare: qualche volta non si può tornare sui propri passi. Non c'è niente da fare: scegli e rinunci a tutto il resto. Se non scegli, non vivi.
Come scegliere quando non si trova la fiducia di selezionare e il coraggio di abbandonare tutto il resto? Si tratta di un quesito che trovo accentuato nelle persone che soffrono di disturbi dell'umore, l'ansia, la depressione, talvolta fino a sfociare su versanti più strutturati dei veri e propri disturbi della personalità di tipo ossessivo compulsivo.
Insieme a queste persone cerchiamo di recuperare quella fiducia di possedere la naturale capacità di scegliere il meglio per se stessi. Una capacità che sottende la sopravvivenza dell'individuo e, di conseguenza, della specie intera. Si tratta di un vero e proprio patto con la vita, che le persone più fortunate hanno l'opportunità di costruire nel corso dello sviluppo, quando sono seguite da genitori attenti, premurosi, generosi nelle cure. Sentirsi amato, stimato, incoraggiato ad affrontare sempre nuovi traguardi: tutto questo getta le fondamenta per lo sviluppo dell'autostima. Quando la persona, invece, cresce in una famiglia abbandonica, il suo sviluppo è pervaso da una serie di insicurezze e dalla necessità di ricevere conferme dagli altri. Con queste persone è necessario effettuare un percorso di cura, talvolta lungo e doloros, ma possibile, per raggiungere nuovi orizzonti e, soprattutto, per prendere quota una volta per tutte in termini di benessere. 
Ai lettori l'invito di leggere il libro e scoprire l'aneddoto a cui faccio riferimento.

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