lunedì 15 ottobre 2012

"Le libere donne di Magliano" (1953) di Mario Tobino

La mia generazione di psicologi-psichiatri non conosce gli istituti manicomiali, se non per averne sentito parlare o per averne letta qualche notizia sui libri o sui manuali che hanno contribuito alla nostra formazione. In Italia i manicomi sono chiusi dalla legge Basaglia, la Legge 180 del 1978: non voglio soffermarmi sulle complesse ripercussioni da essa comportata sulla comunità, tuttavia mi si lasci solo accennare che la legge Basaglia torna ciclicamente ad essere criticata in modo (a dir poco) sconsiderato, tanto più alla luce del livello di inciviltà che abbiamo raggiunto (e pare che in materia non ci sia mai fine al peggio) nell'altro colosso istituzionale di chiusura totale, quale è il carcere e, con esso, l'unico residuo manicomiale ancora aperto: recenti servizi televisivi dimostrano che gli ospedali psichiatrici giudiziari possono essere considerati record di disumanità moderna in Italia sia nell'igiene delle infrastrutture, sia nelle attenzioni riservate agli ospiti, non a caso definiti ancora oggi "internati". Diciamolo con chiarezza: la chiusura del malato di mente (specie così concepita in termini meramente repressivi e punitivi, oltre che umilanti) risponde (forse) ad un'esigenza della collettività, ma certo non guarisce la persona malata. Ai tempi della Legge Basaglia avevo appena 8 anni, pertanto ero in terza elementare. Ricordo la testimonianza di un genitore di uno dei miei compagni di classe, un fotografo, che veniva in aula a parlarci di tempi di esposizione e messa a fuoco dell'immagine. In occasione di una delle sue visite illustrò alcune fotografie scattate all'interno del manicomio di Firenze, il San Salvi. Non so perchè scelse proprio questa materia così delicata e sensibile, specie per bambini così piccoli quali eravamo noi all'epoca, ma immagino che il suo interesse per il manicomio derivasse dal fervore che in quegli anni nutrì l'opinione pubblica sull'argomento. Ricordo che già in quella tenera età, la prima sensazione in me destata da quelle immagini fosse la curiosità: avrei voluto sapere come veniva scandita la giornata all'interno di quelle mura invalicabili. Desideravo confrontarmi con quelle persone bizzarre, che erano là dentro ospitate. Molto probabilmente quella testimonianza fu il primo mio contatto con la malattia mentale e non so dire se quella circostanza ha in qualche modo contribuito alla successiva scelta di studiare psicologia. A causa della mia età, ricordo solo vagamente il dibattito che in quegli anni accompagnò la legge Basaglia, di cui naturalmente ho letto più a fondo negli anni della mia formazione professionale. "Le Libere donne di Magliano" è un libro che apre una finestra su quei luoghi segreti. La penna di Mario Tobino, psichiatra oltre che scrittore, si rende veicolo di una testimonianza che riesce ad unire la presenza professionale dello scrittore, alla sua preziosa sensibilità umana. Dispongo della seconda edizione del romanzo, la cui prefazione è scritta nel 1964, dove si fa appello ai "sani" di essere più attenti ai "malati di mente" (le virgolette stanno a significare la citazione letterale della definizione dell'autore): Tobino si permette un velato gesto di trasparenza, lasciando intendere quanto sia usurante vivere a contatto con la malattia mentale (oggi si parla di burnout), pertanto chiede già negli anni '60 maggiori investimenti a favore delle persone colpite dalle turbe pischiche, individuando la necessità di coinvolgere maggiori professionisti medici e infermieri. Nella medesima prefazione si fa cenno all'introduzione dei farmaci avvenuta nel corso dei dieci anni che intercorrono dalla prima edizione: l'autore accoglie con atteggiamento critico l'introduzione dell'apporto farmacologico, perchè se da una parte il farmaco aiuta alcuni ospiti ad uscire dalla follia, da un'altra parte esso rappresenta agli occhi dell'autore un ambivalente ulteriore camicia di forza della psiche umana: siamo sicuri, si chiede Tobino, che mettendo a tacere le urla dei malati mentali, non li rendiamo più tristi? La domanda è tutt'altro che superata: sappiamo quali sono le potenzialità dei farmaci psichiatrici (peraltro oggi anni luce più evoluti dai farmaci di cui disponeva Tobino allora) e sappiamo quali sono le difficoltà di adesione al trattamento farmacologico di molte persone sofferenti (in linguaggio moderno la tematica è definita col termine compliance). Già in quegli anni Tobino riscontra nella figura delle psicologo il possibile strumento di dialogo tra istanze che rischiano di rimanere separate: l'atteggiamento medico-biologico da una parte e la valenza umana ed esistenziale dall'altra, da cui deriva la necessità di un incontro "da uomo a uomo" (a dimostrazione della modernità di tale aproccio, mi si lasci ricordare 1) che Rogers, l'autore capostipite della scuola di psicoterapia che guida il mio metodo terapeutico, usa dire "da persona a persona"; 2) che Martin Buber sottolinea l'importanza di un rapporto dialogico, all'interno del quale l'io si fonde col tu, a formare una relazione che può essere terapeutica solo se veicola un dialogo nel quale chi cura ha una tale considerazione chi è curato da lasciarsi modificare da quest'ultimo). Oggi sappiamo che le due istanze (quella medico-farmacologica e quella psicologico-esistenziale) trovano una giusta collocazione solo all'interno di un sereno dialogo tra professionisti di diversa estrazione formativa: finalmente lo psichiatra e lo psicologo hanno smesso di sentirsi in competizione, consapevoli del contributo specifico che ciascuno dei due può portare in una materia troppo complessa per poterla anche solo immaginare scotomizzata da inutili preconcetti ideologici. Qui c'è a mio parere il valore del libro (un vero e proprio diario dello psichiatra Tobino) qui commentato: non solo il pregio di descrivere la vita interna dell'istituto manicomiale di Lucca, ma anche il valore aggiunto di dar luce alla malattia mentale, con un linguaggio classico nei termini, ma tutto moderno nelle intenzioni, tese a restituire agli ospiti il diritto di provare passioni, idee, motivazioni e bisogni: i malati mentali non sono soggetti alieni alla natura umana, ma persone con vissuti personali degni di rispetto e di fiducia, con le quali è necessario dialogare. Consiglio la lettura a tutti, ma soprattutto la consiglio agli psicologi e agli psichiatri in formazione, per maturare una professione che ha bisogno della capacità di incontrare le persone, prima ancora che di tecniche, più o meno sofisticate che siano.

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